Cultura e linguaggio: gli altri
La cultura e l’educazione che abbiamo ricevuto costituiscono, da un lato, un imprinting per il nostro carattere, la nostra parte naturale, le forze e le potenzialità; dall’altra, instillano in ognuno di noi condizionamenti e paure che in genere hanno creato ostacoli alla nostra realizzazione personale. Forse è proprio lì che si afferma la volontà esteriore, irrequieta e presuntuosa di darci le soluzioni giuste a vincere il timore di essere, quella che muove dalla nostra mente razionale e che fotografa i modelli di riuscita impregnata di tutti i condizionamenti sociali, anche dal punto di vista lessicale, che spinge a tutti i costi verso una soluzione unica, un comportamento unico e fatto di categorie fisse e imprescindibili. Perciò se sei una donna di carattere, «hai le palle», se sei pragmatica e veloce, sembri un uomo.
Ancor più ho sentito forte la dicotomia di un linguaggio di contrapposizione che, per lo stesso comportamento, pone etichette e giudizi di merito. Così, come capita in molte realtà sociali organizzate, in un confronto normale e naturale, ho sentito definire l’uomo di potere come una persona con volontà e la mia dedizione una arroganza, l’uomo che comunica con abilità come una persona capace di utilizzare abilmente la sua persuasione, io una persona troppo intraprendente, l’uomo super impegnato come dedito al lavoro, io troppo work focused, l’uomo con una bella cravatta colorata come una persona curata, io con degli appariscenti orecchini etnici, vanitosa o esibizionista. Nessuno di coloro che ha utilizzato questo linguaggio aveva poca considerazione di me, questo lo dimostrano le mie buone valutazioni di performance, o aveva poco rispetto per me, fortunatamente ho sempre ricevuto il massimo della stima, ma proprio per questo il sottile substrato che sottende questo linguaggio ha contribuito a farmi sentire sempre messa in discussione, soprattutto ha contribuito a farmi rimettere sempre in discussione.
Cultura e linguaggio: la mia
Per molto tempo, nella mia storia di giovane donna, ho avuto il desiderio di invecchiare perché avevo la sensazione che la giovane età e il genere fossero il peggiore dei purgatori, un limbo nel quale dover sempre dimostrare, a me e agli altri che ero capace, che avevo le competenze, che potevo fare, che avevo il potere. Negli incontri vissuti in aula con Simona Cuomo, nel corso di leadership al femminile per giovani talentuose, ho dichiarato di avere quasi quaranta anni già dai trentasei, un vezzo ma anche una maschera per sembrare, appunto, grande abbastanza per raccontare ad altre donne come si fa a occupare un posto di potere. Ma, diversamente da quel che avevo immaginato, l’età non è stata la chiave della liberazione dal senso di essere inadatta. Un percorso, il mio, per descrivere il quale ho scelto i punti chiave e con questi ho tracciato la mia semiretta accorgendomi, parola dopo parola, di quanto i punti di interruzione si avvicinassero e si colmassero consentendomi una sempre maggiore consapevolezza, anche rispetto al mio scostamento dalla norma di quei percorsi professionali da manuale, non già come contrapposizione, ma come cifra distintiva, come mia diversità.
Tornata al mondo
Nel 2010, all’età di trentacinque anni, dopo otto mesi di complicata gravidanza, ho messo al mondo un figlio meraviglioso e rimesso in discussione tutto il mondo di sempre, compreso il senso di difficoltà mal celato dall’atteggiamento quasi androgino che avevo finito con il costruirmi addosso. Avevo cominciato a smettere di sentirmi inadeguata perché il mio stile di vita o il mio modo di vedere la realtà e di parlarne sentivo non fosse pienamente compreso da coloro che mi circondavano. Avevo cominciato a trasformare la percezione di mancata approvazione con mancata comprensione; ora mi dicevo: «forse non riescono a capire ciò che dico». Le situazioni sociali che avevano agito da moltiplicatore del mio senso di disagio e che mi avevano in qualche modo spinto verso l’adeguamento nei confronti dell’unico modello esistente, erano state finalmente messe sotto scacco, non ancora vinte, ma minacciate. Avevo smesso di fumare per partecipare alle lobbie da fumoir, smesso di interessarmi e di parlare di calcio per avere argomenti di discussione utili a rompere il ghiaccio il lunedì mattina, e smesso di indurirmi il volto con quel taglio corto e severo che annullava le imperfezioni dei miei capelli riottosi.
Ho rotto il guscio
La mia storia è costellata da momenti di crisi, crisi che all’inizio vivevo come rotture, lacerazioni, fratture, e che soltanto il tempo e le esperienze più dolorose mi hanno condotta a trasformare recuperando la derivazione greca del verbo utilizzato in riferimento alla trebbiatura, cioè all’attività di separazione. Da qui ho recuperato tanto il primo significato di separare, quanto quello traslato di scegliere, anche come capacità di giudizio, discernimento, interpretazione. Nel linguaggio comune, infatti, il termine crisi assume quasi esclusivamente un connotato negativo mentre per me la crisi ha assunto una connotazione positiva perché ha promosso in me una riorganizzazione complessiva, nel mio modo di vivere, nell’ambiente che mi circonda, nei sistemi cui appartengo in una separazione tra ciò che desideravo e ciò che non desideravo più. In questi processi di mutazione, ho imparato ad adeguarmi alla situazione e allo stesso tempo ad accedere all’intuizione, confidando nelle mie sensazioni interiori: a seguire la mia pancia senza temere di essere vista come persona poco concreta, e ho accettato la mia abilità di creare relazioni spontanee con quanto mi accade, impiegando uno stile aperto, flessibile e fiducioso che mi consente di affrontare emozioni forti e di gestirle senza esserne travolta o condizionata. Nella complicità delle relazioni, ho imparato a dar voce alle emozioni, ma soprattutto a poter dire ciò che prima d’ora era parso indicibile.
Femminile e creatività Indicibile come era diventato per me il ricorso a quelle conoscenze di orientalistica che non servivano, e non servono, al sistema aziendale, per quelli che definiamo tecnicamente gli skills necessari per coprire una posizione. Invece è stato proprio dal recupero di alcuni aspetti della cultura orientale, con la giusta distanza e la giusta rielaborazione, che ho ritrovato concetti e approcci che mi sarebbero serviti nel tempo: da un lato il recupero di alcuni cenni di una scrittura profondamente evocativa, dall’altro alcuni elementi legati a forme più spirituali come la meditazione. Della scrittura giapponese, per esempio, ho recuperato elementi importanti rispetto al tema di genere nell’origine dei kanji che traducono le parole/ concetto di donna e uomo. Nella scrittura giapponese, un elemento fondamentale è rappresentato dai radicali, un elenco ordinato per numero di tratti. Ogni ideogramma ha un radicale (o è interamente costituito dal radicale), e questo aiuta nella comprensione del significato del kanji nella sua integrità, poiché ciascun carattere non è che un insieme di elementi dei quali uno è considerato principale, per l’appunto, il radicale.
Nella scrittura giapponese il kanji che scrive la parola/concetto di donna è un radicale e costituisce la rappresentazione stilizzata di una figura femminile, mentre quello di uomo è costituito da due radicali: risaia e forza. Questa è stata una semplice ma fondamentale riscoperta funzionale al mio recupero di autostima e autorealizzazione. È come se mi fossi concessa il lusso di pensare di me stessa che non era necessario essere un ruolo sociale per esistere, ma che esistevo in quanto essere radicale, ovvero fondamentale, indipendentemente dal ruolo agito. E riflettendoci questo è avvenuto non già per la necessità di sfuggire a ruoli di potere quanto per l’accettazione di ricoprirli, per il fenomeno di accoglimento di una sovrastruttura che non oscura ciò che la mia natura di donna mi ha dato, una cosa su tutte, la possibilità di generare.
Il femminile rimanda all’atto della creazione e l’atto del creare alla creatività rispetto alla quale amo la semplice ma efficace definizione dal matematico Henri Poincaré: «Creatività è unire elementi esistenti con connessioni nuove, che siano utili». Le categorie di nuovo e utile hanno radicato in me il concetto di leadership femminile nell’ottica del completamento e non dell’opposizione, proprio come a dimostrare che la presenza nelle organizzazioni di un modello femminile, non imitativo di quello maschile, offre connessioni nuove e utili a elaborare la realtà che ci circonda, dalla gestione delle persone a quella del business.
Femminile e ascolto La nuova crisi è arrivata, e la sfida che ne è evoluta si è prefigurata nell’estate del 2014 quanto ho scelto di affrontare un nuovo percorso professionale, dopo anni nell’HR, per toccare con mano l’esperienza del management diretto di persone e per misurarmi con un contesto concreto e veloce come quello del business le cui decisioni tanto impattano sulle politiche di HR. Di nuovo in una situazione complessa dove davvero non conoscevo nulla, dove tutto era da imparare e dove non avevo nessun timore di vivere l’esperienza dell’assunzione: lì tutto era ignoto e le mie caratteristiche personali e la mia leadership naturale costituivano l’unica caratteristica cui potevo far riferimento e cui potevo far appello per riuscire. Qui si inserisce il secondo elemento recuperato dal mio percorso di orientalista; ho cominciato ad ascoltare ciò che arriva dal Tan tien (o hara per i giapponesi) che, secondo la medicina tradizionale cinese, è il centro del corpo umano. In questo punto, situato all’incirca tre centimetri sotto l’ombelico e leggermente all’interno del corpo, si focalizza il flusso dell’energia vitale, il ki6.
Nel pensiero comune avere potere è avere la possibilità di esercitare una forza sugli altri, ma il potere di cui ho imparato a parlare è quello legato alla consapevolezza del proprio valore e delle proprie possibilità. Il nostro potere personale passa attraverso la coscienza di quali siano i nostri talenti, le nostre qualità, e di come possiamo portare all’esterno la nostra ricchezza interiore, non per esercitare una forza contro ma per condividere con il mondo ciò che noi siamo, e io sono donna. Ho imparato a non vivere come un boicottaggio le logiche che non mi appartengono ma che guidano il sistema azienda. Ho maturato la consapevolezza che spesso l’espressione delle emozioni e dei sentimenti rischia di rimanere bloccata da divieti, fatti inconsapevolmente miei, ricevuti nell’infanzia. Imparare a conoscere chi sono mi ha permesso in senso generale di distinguere quelle che sono le indicazioni dell’anima dagli stereotipi acquisiti, e non perché queste indicazioni sono più o meno giuste, ma perché corrispondono alla mia natura più profonda e magari proprio alle mie capacità più talentuose.
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